lunedì 22 giugno 2009

De humano labore et de iniusta retributione - Capitolo 1: Del lavoro in generale

Il fenomeno del lavoro come procacciamento dei mezzi necessari alla continuazione della vita del lavoratore è stato e continua ad essere oggetto di un fondamentale equivoco.
L'espressione "ammazzarsi di lavoro" codifica, nella sua oleografica icasticità, il malinteso che questo libello vuole tentare di risolvere. La normale visione del lavoro e il sentimento comune verso tutto ciò che costituisce l'attività umana, infatti, si caratterizzano in ogni epoca storica per pessimismo, sfiducia e diffidenza. A volte repulsione. Come se il lavoro, ed è questo il fondo del pozzo, l'azimut della portata ingannevole di questa filosofia, fosse un fastidio, un obbligo imposto dalle necessità, una costrizione cui si farebbe volentieri a meno. I lavoratori sono sempre stati condotti a pensare che la loro felicità non possa trovare giusta dimora nell'elenco dei "doveri" che l'attività lavorativa che essi espletano comporta. Quanti cattivi maestri sentiamo predicare lamentele, querimonie su orari di lavoro (oramai, ahinoi, sempre più ridotti), salari e retribuzioni (ma ci chiediamo, l'esistenza stessa di una retribuzione non è, in realtà, un sovrappiù non dovuto?), trattamenti punitivi da parte del datore di lavoro (ma sappiamo che la punizione costituisce modus emendandi del lavoratore: quando mai i ceppi non hanno insegnato ad un mozzo il modo corretto di pulire il ponte di una nave?).
Quanto vorremmo che questi cialtroni provassero la soddisfazione che pervade il bracciante a fine giornata! E quanta aria buona essi non hanno mai respirato, la stessa che può invece assaporare il lavoratore edile, dall'alto delle sue traballanti impalcature?
Ecco che, al termine di quest'opera, il lettore avrà preso consapevolezza che il lavoro è tutt'altro rispetto a ciò che divulga questa mendace ideologia.

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